Museo del pomodoro a Collecchio (PR)
Il pomodoro che rappresenta oggi tanto bene l’Italia, è arrivato a noi dal Nuovo Mondo con le patate, i peperoni, le melanzane, i fagioli, il mais cinquecento anni fa. Come il tabacco, le patate, i peperoni e le melanzane, appartiene a una famiglia conosciuta per le sostanze pericolose che contiene in alcune parti: quella delle solanacee. Gli steli profumati e le foglie dei pomodori, infatti, non si possono mangiare. Da noi, fino all’arrivo di queste piante dai frutti squisiti, conoscevamo i loro parenti allucinogeni che crescevano liberi nelle campagne: lo stramonio, il giusquiamo, la belladonna e la mandragora, usata come narcotico durante le operazioni chirurgiche.
Allo stesso modo delle patate, per diffidenza verso la novità e per ignoranza, il pomodoro durante ben due secoli era stato coltivato nei giardini come ornamento e solo nelle città di mare quali Genova e Nizza era apprezzato per i suoi pregi di ortaggio. In passato i vegetali erano considerati cibi per poveri, ma i pomodori inizialmente hanno avuto fortuna con i ricchi. Dove i regnanti avevano maggiori contatti con la Spagna, accentratrice di ciò che proveniva dalle Americhe, i nuovi prodotti arrivano più celermente. Nel borbonico ducato di Parma aveva avuto una diffusione estesa nell’ottocento grazie a un insegnante di materie agrarie, il prof. Carlo Rognoni e alla fine del secolo, con il contributo del prof. Antonio Bizzozzero. Era lui il direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura, attraverso la quale i docenti andavano ad istruire i contadini in fatto di nuove tecniche di coltura, nuove piante e corretti trattamenti, recandosi personalmente nei poderi.
Con la produzione di pomodori su larga scala era diventato necessario conservarli in modo diverso rispetto alla tradizionale essiccazione al sole, dopo essere stati tagliati in due. Dato che le donne azteche, nell’antico Messico già facevano conserve macinando e asciugando la pasta fino a farla diventare tanto spessa da poter essere tagliata a fette, questo e altri metodi illustrati nel Museo del Pomodoro hanno portato la produzione alla popolarità che conosciamo.
La Corte di Giarola, sede del museo, fin dal dodicesimo secolo era stata utilizzata per scopi agricoli e adesso ospita la sede del Parco del fiume Taro. Al pianterreno di fronte si trova il Museo del Pomodoro, dove si segue la sua storia attraverso immagini, scritti e oggetti utilizzati per la lavorazione e conservazione. Al piano superiore è stato allestito il Museo della Pasta, per seguirne l’evoluzione dal momento in cui è un cereale in grani a quando se ne diffonde il consumo nel mondo intero.
Il sito del museo è
www.museidelcibo.it/pomodoro.asp
Due bellissimi bagolari sono visibili proprio appena svoltato l’angolo dello storico edificio, in direzione del fiume Taro.
Altri alberi monumentali si possono trovare nella pagina relativa.