I miei articoli

MUSEI DELLA NATURA E DELL’UOMO – Sardegna e Sud

by 3 Febbraio 2013
Exif_JPEG_PICTURE

capanna di pastori con tronchi di ginepro

 

In Sardegna, a Carbonia c’è il museo della miniera, dove ci si può rendere conto non solo del modo di vivere e di lavorare dei minatori e delle loro famiglie, ma si imparano aspetti interessanti che riguardano la chimica e la fisica.

A Bitti c’è un museo delle tradizioni contadine in antiche case dalle travi di ginepro ed i soffitti di canne palustri. Il robustissimo ginepro, inattaccabile dai tarli e dal marciume è molto diffuso nelle leccete di cui è ricca la Sardegna: è usato anche per il tetto conico delle capanne dei pastori. Nelle case si usava il sughero (vedi fra gli itinerari naturalistici della Sardegna) per fare grandi vassoi in cui mettere i cibi, secchielli per fare lo yogurt, bugni per le api (le arnie, prima che si facessero quelle squadrate coi telaietti estraibili), sgabelli per sedersi intorno al fuoco in una fossa del pavimento o alla minuscola tavola bassa. Le querce da sughero sono ovunque in quella zona, per molti chilometri dove si vedono quasi tutte con la parte bassa del tronco privata della bellissima corteccia riccioluta, che ci mette 10 anni a riformarsi. Nei primi mesi dopo che è stata tolta, il tronco rimane di un colore rosso bordeaux molto intenso e bello. Vale la pena di andare a visitare la zona archeologica di Romanzesu, a 13 chilometri da Bitti, dove il suggestivo luogo di culto è reso incantevole dal muschio e dai licheni che rivestono le pietre w dalle sughere che li circondano in un insieme toccante. In inverno i toni di verde sono magnifici.

Sempre nel museo di Bitti ci sono due stanze dedicate al canto dei famosi tenores sardi, coi loro canti pastorali a quattro voci.

Nel museo della civiltà contadina di Santu Lussurgiu, tra le tante cose si viene a sapere che la ferula, pianta che assomiglia al finocchio, produce un lungo, robusto fusto cilindrico e legnoso in cima al quale sbocciano i suoi fiori. Il fusto con la radice rizomatosa, una volta seccato veniva usato come primitivo cavallino giocattolo dai bambini. A carnevale c’è una corsa che ancora i piccoli fanno con simili cavalcature. Un impiego pratico era anche quello di farne sgabelli. Dato che il midollo si può far bruciare dentro il fusto, la mitologia antica dice che Prometeo avesse rubato il fuoco a Giove portandolo dentro un fusto di ferula. Nel passato storico era usata per bastonare gli alunni. Ferula è anche il nome che indica un bastone liturgico che termina con una sfera, perché ricorda la pianta che forse era usata originariamente.

Nel museo del vino di Berchidda si conoscono le applicazioni del sughero, che può essere tagliato in fogli tanto sottili, eppure robusti, da poterci confezionare il costume dei maestri vinai.

Altro museo etnografico interessante è quello di Aritzo, dove si scopre un modo ingegnoso per realizzare i sorbetti fatti con acqua, zucchero e succo di limone. Il ghiaccio messo nel secchiello in cui era immerso il contenitore del sorbetto, veniva sciolto cospargendolo di sale. In quel modo, pur conservando la bassissima temperatura avvolgeva completamente il contenitore con effetto di raffreddamento veloce. Nelle sale ci sono poi molti oggetti che aiutano a conoscere certe qualità dei vegetali, come il potere calorifico delle radici d’erica o quello affumicante del fungo “isprene” per allontanare le api.

 

SUD

Quando ci si trova a Matera, nel complesso delle interessanti case/grotte se ne trovano due arredate come nel passato, dove si vede che, come avveniva in molti altri luoghi tra cui la Valle d’Aosta, l’asino e magari anche la mucca vivevano in casa, in un angolo riservato con accomodamenti igienici tipici della stalla. In questo modo gli animali erano al sicuro e in inverno contribuivano al riscaldamento dei locali col calore del loro grande corpo

In Sicilia, vicino a Modica si trova la cava di Ispica, con grotte abitate anticamente. Nei pressi si trova un mulino ad acqua con ruota orizzontale, secondo l’uso arabo. Si visita anche la casa con gli oggetti usati comunemente dai contadini siciliani, tra cui i para-dita per falciatori, fatti con canne palustri.

 

 

RICARDO SEMLER: IL DIRIGENTE CHE TUTTI VORREMMO

by 29 Gennaio 2013

semler

 

Ogni essere umano desidera eccellere, anche se non tutti se ne accorgono né lo ammettono. Questo, invece dovrebbe essere tenuto presente, anzitutto per evitare le invidie e le prevaricazioni che degradano chi le fa e mortificano chi le subisce. Ridotto questo ostacolo, ogni persona può dimostrare le capacità che le permettono di elevare anche di molto la qualità della propria vita, contribuendo al tempo stesso a quella della comunità.

C’è un direttore d’azienda, in Brasile, Ricardo Semler che con quest’idea in testa ha cambiato enormemente la situazione di un’azienda che vent’anni fa era in crisi: la Semco. E’ allora che il giovanissimo figlio di un industriale austriaco emigrato in Brasile ha iniziato a dirigere la fabbrica di elettrodomestici del padre. Ha cominciato un po’ alla volta a smantellare il modo gerarchico di trattare i dipendenti, a favore di uno che li facesse sentire motivati al miglioramento della ditta, grazie al miglioramento delle condizioni di lavoro.

Ascoltando le osservazioni di ciascuno, Semler ha gradualmente affidato ai lavoratori la possibilità di innovare, assumendosene la responsabilità, con il sostegno di tutti. L’orario e anche la quantità di lavoro sono state adattate alle esigenze personali, in accordo coi colleghi. La scelta dei dirigenti ed il loro stipendio sono avvenuti di concerto coi sottoposti, le spese sono state ridotte grazie al ridimensionamento della burocrazia e di tutto ciò che appesantisce la giornata. Lo scambio delle mansioni e la formazione hanno elevato la qualità del lavoro e le proposte per nuove attività e prodotti da parte dei dipendenti sono state realizzate. Il profitto è in tanto aumentato, che l’azienda è passata dai 90 ai 3.000 dipendenti, diventando un modello che adesso è studiato ed applicato dalle scuole per dirigenti e le università di ricerca.

Conoscere l’animo umano permette di capirlo e di valorizzarlo. C’è chi è portato a questo per natura, ma tutti noi possiamo migliorare dedicando del tempo a ciò che è fra le cose più importanti e viene invece troppo spesso ignorato: conoscere se stessi.

 

 

ANIMALI -favolose storie vere-

by 30 Dicembre 2012

ANIMALI-favolose-storie-vere-COPERTINA

200 pagine con piccole illustrazioni – € 15,00 + 2,00 per spedizione,

con segnalibro (ciascuno è un pezzo unico) del valore di € 2,50  in omaggio

 

Il libro che fa conoscere le straordinarie qualità degli animali e le divertenti, ma anche commoventi storie vere che li riguardano

 

ecco un estratto

 

LA GATTA VIVANDIERA

 

Sopra gli stalli del coro, vicino all’altare della chiesa della Vergine Maria e di tutti i santi a Maidstone, nella regione inglese del Kent c’è una grande lapide. Un lungo testo cita i membri dell’illustre casata degli Wyatt, i titoli, i matrimoni, gli eventi che confondono chi non sia del posto. Una breve frase riesce, però, ad attirare l’attenzione anche del forestiero: “In memoria di sir Henry Wiat, di Alington Castle cavaliere baronetto discendente dell’antica famiglia, che sotto il regno di re Riccardo III fu imprigionato e torturato nella torre, dove è stato nutrito e mantenuto da un gatto”.

Henry Wyatt (l’ortografia varia da Wyatt a Wiat, ma si tratta della stessa famiglia) era nato nel 1460 ed aveva studiato ad Eton con l’erede al trono Henry Tudor, con cui aveva fatto amicizia. Il re Riccardo III si era sentito minacciato dal possibile sostegno che Henry Wiat avrebbe potuto dare all’amico nella pretesa al trono che Riccardo voleva scongiurare. Non trovando una giustificazione per ucciderlo, l’aveva fatto imprigionare per le sue opinioni nella torre di Londra. Sir Henry dunque vi aveva passato molto tempo in pessime condizioni, soffrendo il freddo e la fame. Un giorno, però, una gatta era entrata da lui attraverso le grate della finestra. Ci si può immaginare che consolazione fosse una simile, inattesa compagnia. Il prigioniero aveva abbracciato, accarezzato e stretto a sé la bestiola che lo aveva riscaldato con le sue manifestazioni affettuose e il vibrare delle fusa, il proprio calore e la morbida pelliccia. La gatta aveva ben presto capito che il pover’uomo soffriva la fame e, con l’abilità di cacciatrice che distingue la sua specie, aveva cominciato a portargli delle prede, che il prigioniero era riuscito a farsi cucinare da un guardiano compiacente. Pare che si trattasse di piccioni, ma forse c’erano anche altri animali meno apprezzabili per la memoria di una nobile famiglia e che per questo non sono citati. Comunque fosse, la gatta aveva sostenuto in ogni modo il prigioniero che aveva resistito fino alla liberazione, poco dopo che l’amico Henry Tudor, nel 1485 era stato incoronato. Della premurosa gatta non si hanno altre notizie, ma la vita del suo protetto aveva potuto riprendere nel migliore dei modi e la storia dell’inconsueta vivandiera era stata raccontata e tramandata nei secoli, fino ad essere ricordata anche nella chiesa e arrivare a tutti noi.

 

 

Alberi maestri Piemonte e Valdaosta

by 28 Dicembre 2012

251 pag. € 13,90 + 2,00

per spedizione

mail: info@ascuoladaglialberi.net

Alberi Maestri Piemonte cover legg

I più begli alberi monumentali di tutte le provincie piemontesi e valdostane, con la narrazione del loro carattere, delle qualità, della storia. Illustrati con acquerelli a tutta pagina.

Estratto

L’OLMO DI BERGEMOLO

 

Una ripida e stretta strada sale fra i castagni e ci si accorge di aver oltrepassato i novecento metri di altitudine, quando si diradano ed a loro si sostituiscono i primi faggi. Finalmente si raggiunge un pianoro dove il famoso olmo montano vive da trecentonovant’anni accanto alla cappella di san Michele arcangelo, della stessa età. Un tempo succedeva con una certa frequenza che, accanto ad un luogo di culto del guerriero celeste, fosse piantato un olmo, perché i suoi germogli aiutano le ferite a chiudersi e sono ottime per guarire le ulcere, anche della lebbra. Quello di Bergemolo ha la chioma un po’ diradata per l’età, ma le radici che ha prudentemente esteso su tre lati del tronco come contrafforti, lo tengono ancora ben saldo sul terreno. Se non ci fosse la strada che lo sfiora, le avrebbe rinforzate anche nella sua direzione, dove invece devono sopportare il peso dei pur rari automezzi che vi passano sopra.

Pochi riescono ad immaginare correttamente ciò che non vedono e, dato che le radici sono quasi del tutto nascoste, vengono ignorate. Eppure i rami sotterranei degli alberi sono quelli che danno loro stabilità non solo meccanica, sorreggendoli, ma garantiscono la salute necessaria alla robustezza e alla flessibilità di cui hanno bisogno per sopportare il vento e la neve che li mettono alla prova. Le radici, che si fanno man mano sottili come fili, si estendono per decine e decine di metri tutt’intorno ed in profondità per trovare acqua, minerali, ma anche aria necessaria al respiro. Quando il terreno è troppo compresso le soffoca, l’albero si ammala e si indebolisce. I rami si spezzano e cadono a causa dei danni sotterranei, ben più che per la furia del vento.

La grandiosità degli alberi ultracentenari ispira sentimenti che quelli giovani non possono dare e imprimono personalità ai luoghi dove vivono. Deve essere stato di quel parere anche l’uomo che anni fa ha salvato l’olmo dall’essere abbattuto. L’albero è proprietà di tre diverse famiglie e, quando due erano state d’accordo sulla sua eliminazione, il terzo lo aveva impedito in un modo che gli rende onore per lo spirito con cui ci era riuscito. Non si era opposto, infatti, ma aveva solo preteso che la sua parte restasse integra ed in buona salute. Essendo la cosa impossibile se lo avessero tagliato, eccolo ancora lì.

 

 

 

Alberi maestri del Friuli Venezia Giulia

by 28 Dicembre 2012

171 pag.  € 13,00 + 2,00

per spedizione

mail: info@ascuoladaglialberi.net

Alberi Friuli

 

I più begli alberi monumentali di tutte le provincie friulane, con la narrazione del loro carattere, delle qualità, della storia. Illustrati con acquerelli a tutta pagina.

 

Estratto

 

LA MAGNOLIA DI GORIZIA

 

Quando nel 1863 Gorizia faceva ancora parte dell’Impero Austro-Ungarico, gli irredentisti avevano trovato qualcosa, capace di rappresentare l’Italia, la patria a cui volevano di nuovo essere uniti. Non potevano esporre bandiere tricolori, cantare inni o fare monumenti, ma nel nuovo parco pubblico, potevano piantare un albero che avesse colori italiani e fosse originario di un Paese libero dalla dominazione straniera, come l’America.

Si erano procurati una magnolia sempreverde, che in primavera fa sbocciare grandi fiori bianchi e in autunno ha frutti rossi e lucidi come corallo, per avere una bandiera vivente. Era già grandicella e avevano curato il suo trapianto in modo da essere sicuri che potesse mettere salde radici, in quel giardino del centro città. Su pochi alberi come su quello, si erano concentrate tante aspettative. Eppure, i patrioti non sapevano di averne scelto uno che discendeva da una stirpe audace e innovatrice: quella che centotrentasei milioni di anni fa, era stata fra le prime ad ornarsi di fiori a corolla. Una simile novità aveva dato al mondo forme, profumi, colori nuovi e intrecciato relazioni armoniose e durature fra specie diverse. Gli alberi si erano assicurati, in quel modo, la collaborazione degli insetti per essere fecondati e quella degli uccelli per diffondere la loro discendenza.

Sarebbe stato un motivo in più, per fare di quella magnolia un simbolo di fratellanza nazionale. Con lei, il desiderio di dominio degli uomini sulla natura era venuto meno, in modo da non danneggiare un simbolo a cui guardavano con speranza. Nessuno si sarebbe azzardato a potarla, tagliando i rami che lei stava già allungando dalle parti più basse del tronco. Così, quando dopo una curva aggraziata avevano toccato terra e messo radici, nessuno era intervenuto. Erano sette e da ciascuno, in cerchio erano spuntate altrettante magnolie, che scambiavano attraverso le braccia materne, la propria linfa. Così, le giovani piante sono cresciute diritte e alte fino a raggiungere il punto in cui quella originaria chiudeva la sua cupola con gli ultimi rami, come la volta di un tempio. Niente avrebbe potuto rappresentare meglio una nazione unita.

Il desiderio dei goriziani che l’avevano scelta è stato espresso da lei in modo ben più ampio di quanto potessero desiderare e persino immaginare, come una fontana che zampilla senza temere di dare troppo, perché la sua sorgente è profonda e non si esaurisce.

 

 

Acqua, aria, terra e fuoco, energie del mondo

by 28 Dicembre 2012

142 pag.  € 15,00 + 2,00

per spedizione

mail: info@ascuoladaglialberi.net

COPERTINA_fenomeni naturali

 

 

Per conoscere le fantastiche, sorprendenti performances dei quattro elementi: come è possibile trovare l’acqua nel deserto? Come può nascere un vento caldo in inverno dalle montagne innevate? Per quale fenomeno dall’acqua può nascere il fuoco? Come mai compaiono tante pietre negli orti?

 

Acqua, aria, terra e fuoco possono apparire umili elementi, se li si vede solo nella veste più consueta, che noi utilizziamo.

Basta dedicarvi maggiore attenzione per accorgersi, invece, di qualità che in passato sarebbero sembrate soprannaturali.

Sotto la loro azione il mondo si trasforma incessantemente, creando sostanze e fenomeni che possono soddisfare ogni immaginazione. Conoscerli almeno un poco, permette anche di utilizzarli meglio, con minor danno per l’ambiente.

 

 

Estratto 

LE SORGENTI DI NEBBIA

Ci sono montagne da cui non sgorgano sorgenti, dove non scorre neppure un torrentello e dove anche la pioggia arriva ben di rado. Ogni giorno, però, sono coperte da una fitta nebbia che parte dal mare come vento umido, ma quando raggiunge i pendii, col freddo si appesantisce, rallenta e perde la forza per andare oltre. L’acqua che la inzuppa, in minutissime particelle, riesce a rapprendersi solo se trova almeno un pulviscolo, qualche filo d’erba, qualche pianta a cui aderire per riunirsi in gocce, prima che il sole diventi abbastanza caldo da farla risalire, di nuovo invisibile, verso il cielo. A diventare pioggia, non ce la fa mai.

Su alcune di quelle montagne ci sono alberi, che con la chioma offrono alla nebbia una superficie tanto vasta su cui adagiarsi, da raccogliere acqua a sufficienza per le loro necessità. Le foglie piene di ondulazioni e nervature sono l’ideale perchè l’umidità possa formare gocce, scivolare lungo le punte e precipitare al suolo. Litri e litri del prezioso liquido penetrano nel terreno e sciolgono i minerali utili alle piante e agli animali, poi una parte risale attraverso le radici fino alle foglie, che se ne servono per farne linfa, con le sostanze prese dall’aria e dalla terra.

Sopra certe alture, quasi duemila anni fa, gli uomini che avevano osservato gli alberi e le rocce catturare l’acqua dall’aria umida, li avevano imitati per poter rifornire i loro villaggi a valle, dove non arrivavano ruscelli e non c’erano sorgenti. Avevano impilato alti mucchi di pietre calcaree, tanto accidendate che il velo con cui la nebbia le rivestiva, si rompeva facilmente in gocce, colava a terra e si infilava in tubature che la portavano fino alle fontane vicino alle case. Uno dei villaggi bizantini diventato per questo città, era Teodosia.

Dove manca l’acqua in Perù, in Cile, in Sudafrica, adesso gli uomini in cima alle alture la raccolgono dalla nebbia con grandi reti di plastica tese in verticale, come un recinto per una porzione di cielo. L’umidità si attacca alle maglie, si rapprende in gocce, scivola nelle grondaie e scende nei tubi, per rifornire i paesi. Il raccolto delle nuvole, lo chiamano loro.

Lungo le coste della Namibia, l’oceano Atlantico è raffreddato dalla corrente del Benguela, che arriva dal Polo Sud ed offre sollievo alle coste africane. Ogni notte, il vento marino che si spinge verso il deserto, ne incontra l’aria ancora calda e si condensa in nebbia. L’aspettano tutti i suoi abitanti e i coleotteri che la condensano su di sé, dove le gocce scivolano verso la bocca, lungo il corpo ruvido e inclinato. Anche la welvitschia, unico e stranissimo albero nano del deserto, con le sue due sole foglie ottiene ogni giorno da quell’aria greve di umidità, di che vivere per duemila anni.