Il raccolto delle nuvole
Ci sono montagne da cui non sgorgano sorgenti, dove non scorre neppure un torrentello e dove anche la pioggia arriva ben di rado. Ogni giorno, però, sono coperte da una fitta nebbia che parte dal mare come vento umido, ma quando raggiunge i pendii, col freddo si appesantisce, rallenta e perde la forza per andare oltre. L’acqua che la inzuppa, in minutissime particelle, riesce a rapprendersi solo se trova almeno un pulviscolo, qualche filo d’erba, qualche pianta a cui aderire per riunirsi in gocce, prima che il sole diventi abbastanza caldo da farla risalire, di nuovo invisibile, verso il cielo. A diventare pioggia, non ce la fa mai.
Su alcune di quelle montagne ci sono alberi, che con la chioma offrono alla nebbia una superficie tanto vasta su cui adagiarsi, da raccogliere acqua a sufficienza per le loro necessità. Le foglie piene di ondulazioni e nervature sono l’ideale perché l’umidità possa formare gocce, scivolare lungo le punte e precipitare al suolo. Litri e litri del prezioso liquido penetrano nel terreno e sciolgono i minerali utili alle piante e agli animali, poi una parte risale attraverso le radici fino alle foglie, che se ne servono per farne linfa, con le sostanze prese dall’aria e dalla terra.
Sopra certe alture, quasi duemila anni fa, gli uomini che avevano osservato gli alberi e le rocce catturare l’acqua dall’aria umida, li avevano imitati per poter rifornire i loro villaggi a valle, dove non arrivavano ruscelli e non c’erano sorgenti. Avevano impilato alti mucchi di pietre calcaree, tanto accidentate che il velo con cui la nebbia le rivestiva, si rompeva facilmente in gocce, colava a terra e si infilava in tubature che la portavano fino alle fontane vicino alle case. Uno dei villaggi bizantini diventato per questo città, era Teodosia.
Dove manca l’acqua in Perù, in Cile, in Sudafrica, adesso gli uomini in cima alle alture la raccolgono dalla nebbia con grandi reti di plastica tese in verticale, come un recinto per una porzione di cielo. L’umidità si attacca alle maglie, si rapprende in gocce, scivola nelle grondaie e scende nei tubi, per rifornire i paesi. Il raccolto delle nuvole, lo chiamano loro.
Lungo le coste della Namibia, l’oceano Atlantico è raffreddato dalla corrente del Benguela, che arriva dal Polo Sud ed offre sollievo alle coste africane. Ogni notte, il vento marino che si spinge verso il deserto, ne incontra l’aria ancora calda e si condensa in nebbia. L’aspettano tutti i suoi abitanti e i coleotteri che la condensano su di sé, dove le gocce scivolano verso la bocca, lungo il corpo ruvido e inclinato. Anche la welvitschia, unico e stranissimo albero nano del deserto, con le sue due sole foglie ottiene ogni giorno da quell’aria greve di umidità, di che vivere per duemila anni.
In Perù e in Cile, nel deserto di Atacama, è la Tillandsia landbeckii a vivere di nebbia. Appartiene alla specie delle bromeliacee, abituate a vivere senza radici tranne pochi filamenti per reggersi su altre piante e addirittura sui cavi elettrici che ancora costeggiano o attraversano le strade. La landbeckii forma dei grossi cuscini che a volte sembrano goffi animali in gregge, che pascolano l’umidità dell’aria dalle piccole squame di cui sono rivestite le foglie simili a ramoscelli grigi fitti fitti. Alla sua struttura si sono ispirati gli umani per creare teli molto più efficaci di quelli usati finora nel trasformare in acqua potabile l’abbondante nebbia.