Kenya: memorabile fuga sul monte
In passato si riteneva che le montagne fossero dimore delle divinità e pochissimi si azzardavano a salirvi. Ma il monte Kenya alto 5.199 metri, avvolto da mantelli di neve e ghiaccio nonostante la posizione all’equatore, con la sua maestà ha ispirato una scalata indimenticabile. Felice Benuzzi già dal 41 era prigioniero di guerra, e nel 42 era arrivato da poco in un campo di prigionia vicino alla grande montagna, quando un giorno l’aveva vista svelata dalle nuvole che spesso la nascondevano. Quel suo innalzarsi libera e splendente aveva risvegliato in lui il desiderio di sottrarsi alla condizione di prigioniero che avviliva il suo spirito quanto quello dei compagni italiani, con un’azione capace di dargli la forza necessaria a resistere fino alla conclusione della guerra. Sarebbe stato inutile fuggire cercando di raggiungere una libertà definitiva, a causa delle grandi distanze da qualsiasi nazione neutrale. Chi l’aveva tentato era stato riacciuffato mezzo morto per la fame e gli stenti. Lui avrebbe cercato invece di compiere un’impresa capace di rinvigorire la sua dignità appiattita, scalando quella montagna e tornando al campo di prigionia. Da buon triestino aveva fatto conoscenza fin da piccolo con l’austerità delle rocce e delle altitudini, ma certo non poteva compiere l’impresa da solo. Aveva cercato quindi due compagni, Giovanni Balletto ed Enzo Barsotti e per mesi, con astuzie, sotterfugi e la complicità segreta di alcuni sostenitori, aveva preparato l’attrezzatura e i viveri per la ventina di giorni ritenuti necessari all’impresa. Come uniche mappe aveva degli schizzi tratti da un vecchio libro, altri fatti da lui che aveva osservato la montagna col binocolo e l’etichetta di una scatola di carne con una foto del monte. Come descrizione aveva solo qualche articolo di giornale. Il 24 gennaio 1943, all’inizio dell’unico mese di tempo favorevole alla scalata, i tre erano fuggiti lasciando un biglietto per scagionare gli altri prigionieri dall’accusa di complicità e avvertire che sarebbero rientrati entro venti giorni. Così, senza alcuna esperienza dei luoghi, malnutriti e con zaini pesantissimi dall’attrezzatura necessaria ad affrontare il grande freddo e l ‘umidità delle cime, erano fuggiti e avevano attraversato la fitta foresta, notoriamente abitata da elefanti, rinoceronti, leopardi e molti altri animali selvatici.
La bellezza e la solennità dei luoghi, i suoni dell’acqua, degli alberi, degli animali, la vista dall’alto sulle terre sotto di loro, calde e sicure ma oppresse dal dominio straniero, stavano marcando in loro impressioni profonde, dando senso alle fatiche e ai pericoli di quell’iniziativa, una forza che le loro condizioni fisiche avrebbero negato. Rischiando più volte la vita avevano scalato la montagna, issato una bandiera italiana, lasciato una bottiglia sigillata con all’interno un foglio su cui erano scritti i loro nomi e la data. Poi erano ridiscesi e quasi del tutto a digiuno, sfiniti e malconci erano rientrati al campo di detenzione senza essere scoperti. Avevano messo in conto la punizione che sarebbe stata loro inflitta, ma l’ammirazione per l’audacia dell’impresa da parte degli inglesi al comando l’aveva molto mitigata. Lo spirito che aveva animato la memorabile opera aveva galvanizzato i tre ma aveva giovato anche tutti gli altri, dando prova che quando si attiva la creatività, ogni cosa diventa possibile.
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