Museo del lino di Pescarolo (CR)
In passato i campi fioriti d’azzurro a maggio erano lo spettacolo che offriva la campagna intorno a Pescarolo, dove il lino era coltivato e lavorato. L’aspetto esile della pianta ne rivela il carattere timido e non competitivo, che soccombe a quelle più rustiche e vigorose. Ecco perché occorre seminarla alternandola ogni anno con la coltivazione dell’erba medica o del trifoglio, che impediscono alle infestanti di installarsi, mentre nutrono il terreno quando sono a dimora e il bestiame quando vengono tagliate.
Ormai il lino che non sia per uso personale si coltiva più a Nord: in Belgio, in Francia, in Irlanda, oppure nell’Est Europeo, ma testimonianze delle sue origini antichissime sono state ritrovate, oltre che in Svizzera, in Medio Oriente e in Egitto. Lo si coltiva da millenni per avere le fibre fresche e resistenti da tessere e, in una varietà diversa, per i semi scuri e nutrienti da mangiare aggiunti ai cibi o in forma di pane, come avviene ancora oltralpe. L’impacco di semi di lino riscaldati, messi dentro un sacchetto di tela che si adagia sul petto, era ancora usato da noi fino a qualche decennio fa per curare la tosse. L’olio che se ne spreme è buono per condire e consente di ottenere le più delicate sfumature dai colori per dipingere quadri, perché quando secca rimane elastico e non si rompe. E’ il motivo per cui viene impiegato per rivestire strade e ponti proteggendoli dall’usura o, mescolato al sughero, diventa il linoleum che copre i pavimenti delle case. In passato se ne impregnavano i tessuti così da renderli impermeabili e adatti ai tettucci di calessi e carri. Prima dell’elettricità serviva per illuminare, bruciando in lampade di ogni misura.
Il Museo del lino di Pescarolo, però, è dedicato soprattutto al suo impiego tessile. Si segue dunque la vita della pianta attraverso gli oggetti serviti alla semina, al raccolto, alla liberazione delle fibre dalle parti legnose e da quelle deperibili, alla trasformazione in filati e poi in tele di varia finezza. Sono oggetti di legno, che in certi casi nelle forme fanno pensare a giocattoli o sculture. Ce ne sono di curiosi e belli, come la stadera nella sua custodia, o di molto comuni, come il mastello e l’asse per lavare, utilizzando la lisciva ottenuta dalla cenere di legna. A seconda che si volesse lavare o sbiancare i tessuti, si faceva bollire la cenere in acqua da due a cinque ore, poi si filtrava più volte e infine si versava sui panni sistemati nel mastello. La si recuperava quando usciva dal foro sul fondo, per poi ripetere ancora e ancora l’operazione. I panni venivano infine sciacquati e stesi la notte sull’erba perché si impregnassero di rugiada, che dicono perfezionasse il loro candore e si facevano asciugare all’aria.
In stanze dove l’umidità è tenuta sotto controllo ci sono poi esposti molti capi di vestiario di lino e moltissimi altri sono custoditi in cassettiere e mostrati solo ai veri estimatori.
Il Museo del lino dedica una parte anche alla seta, con alcuni oggetti che servivano alla sua lavorazione.
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A Pochi chilometri da Cremona, in provincia di Piacenza, a Monticelli, c’è il Museo del Po nei sotterranei della rocca.